Si chiama “legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010”, ed ha portato tanti studenti, ricercatori, professori nelle piazze nello scorso autunno ed inizio di inverno. Non mi sono appassionato alla protesta, e soprattutto alle sue forme, in quanto il linguaggio escatologico ed ideologico che veniva utilizzato mi pareva più dettato da logiche di contrapposizione che da confronti sul merito. Confronti che, per inciso, da parte ministeriale non sono mai stati offerti né permessi.
Ma guardiamo avanti. Ormai è Legge dello Stato (anche se mancano ancora diversi decreti attuativi) ed occorre adeguarsi.
I temi che più avevano fatto scaldare le proteste di piazza erano relativi alla cosiddetta “governance” (ossia la composizione ed i ruoli di Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione) e la riforma delle procedure di “reclutamento” (ossia assunzione e progressione di carriera), in particolare per l’abolizione dei ricercatori a tempo indeterminato.
Sulla questione della governance non riesco ad avere un parere, anche perché moltissimo dipenderà dagli statuti che ciascuna università dovrà approvare. E poi sono argomenti troppo astratti per la mia povera mente da ingegnere.
Sulla questione del reclutamento non voglio entrare: il sistema precedente era accusato di essere farraginoso e clientelare, e quello futuro sarà altrettanto farraginoso e clientelare. L’istinto mi direbbe che sarebbe stato più facile e più efficace cercare di “correggere” un sistema esistente (che non era perfetto, ma di cui si conoscevano per esperienza pregi e difetti) piuttosto che buttarlo a mare e crearne uno nuovo di zecca (di cui i difetti non sono ancora noti). Ma forse il consumismo è arrivato anche qui…
Ma questi non sono i veri problemi. O meglio, sono dei cambiamenti, non si sa se avranno un impatto devastante o marginale, ma tutto sommato fanno parte dell’evoluzione del sistema, che in qualche modo si può governare.
I veri problemi sono nascosti negli altri articolini e commucci, a cui nessuno ha mai prestato attenzione.
Prendiamo ad esempio l’art. 18 comma 5. L’articolo 18 sembra quasi innocuo, con il suo titolo “Chiamata dei professori”, che specifica i meccanismi con cui le università chiamano i professori, a valle della valutazione di bilancio (dell’università) e dell’abilitazione nazionale (dell’aspirante professore). Nulla di strano. Le chiamate avvengono già adesso. È rarissimo che vi siano delle sorprese in questo processo. Quindi è un articolo innocuo.
E invece no.
L’ultimo comma (il comma 5, appunto) descrive quali sono le figure professionali che possono partecipare “ai gruppi e ai progetti di ricerca […] e [al]lo svolgimento delle attivita' di ricerca”. E la novità è che molte figure precedentemente legali, diventano escluse. Non è più possibile stipulare contratti di collaborazione continuativa per scopi di ricerca. E neppure collaborazione occasionale. E neppure contratti da tecnico a tempo determinato. Ma neanche borse di studio. La ricerca invece può essere fatta “esclusivamente” (sic) dal personale di ruolo, dai dottorandi e dagli assegnisti di ricerca.
Chi ha già avuto esperienza nei progetti di ricerca finanziati (a livello nazionale, regionale, europeo) o nelle collaborazioni con aziende, sa che la cosa essenziale per poter “portare a casa” il contratto è poter disporre di personale competente e dedicato al progetto. Le aziende chiedono che noi professori e ricercatori seguiamo e formiamo il personale giovane lo facciamo lavorare sul progetto: in tal modo a fine progetto avranno i risultati di qualità ed il personale pronto da assumere. I progetti europei richiedono che si investano molti mesi-uomo, e per questo è necessario assumere diverse persone.
L’effetto dei vincoli sarà molto semplice: diventerà più difficile o quasi impossibile assumere alcune tipologie di personale, perché i vincoli imposti sugli assegni di ricerca (durata minima e massima, titoli di studio, importi vincolati, …) e sul dottorato di ricerca (concorso annuale, durata triennale, importo risibile, …) non sono compatibili con molte delle richieste dall’esterno.
I risultati? Certamente meno spesa per personale. Certamente meno precariato nell’università (non perché si siano stabilizzati, ma perché andranno a fare i precari altrove). Certamente meno entrate. Sì, l’effetto sarà la riduzione della capacità di autofinanziamento delle università. Perlomeno di quelle tecnologiche, dove i meccanismi sono quelli che ho esposto.
Questo sì, è un danno. Reale. Quantificabile. Immediato. Non governabile.